La Stereoscopia come e perché: |
1 - Perché riusciamo a vedere la profondità 2 - La Stereoscopia nella fotografia del 1920 3 - La Stereoscopia nella fotografia digitale 4 - La tecnica degli Anaglifi |
Può sembrare strano, ma la nostra visione tridimensionale è una illusione creata dal
nostro cervello, infatti ognuno dei nostri occhi ha una visione bidimensionale
(ovvero su due piani: altezza e larghezza). Ma la natura ci ha forniti appunto di due
occhi, distanziati circa 6,5 cm l'uno dall'altro, e con gli assi visivi leggermente
convergenti.
Ognuno dei nostri occhi trasmette al cervello una immagine bidimensionale della
stessa scena, ma ognuna di queste immagini è ripresa con “angoli di convergenza”
differenti, a questo punto il cervello unisce le due immagini, calcola le varie
differenze angolari e ci restituisce un'unica immagine della scena dandoci la visione
tridimensionale nella quale noi possiamo percepire, oltre alla larghezza e all'altezza,
anche la profondità della scena e degli oggetti in essa inseriti.
La differenza di profondità è data sopratutto da due fattori:
L'angolo formato dall’incrocio degli assi visivi (“angolo della parallasse
stereoscopica”) che tende a essere tanto più piccolo quanto più distante è il punto
che si sta osservando, e viceversa.
Inoltre la distanza tra i nostri occhi permette anche di vedere la scena da due
angolazioni leggermente differenti, ovvero l'occhio destro osserverà gli oggetti da
destra a sinistra, e l'occhio sinistro da sinistra a destra. Di conseguenza un oggetto che ha
una posizione nell’immagine vista dall’occhio destro, avrà un’altra posizione (sarà
spostato, sfasato) nell’immagine vista dall’occhio sinistro.
Se il punto osservato dista più di 30 metri (o all’infinito), la differenza angolare è
praticamente nulla, quindi le due immagini saranno quasi perfettamente
sovrapponibili.
Mentre saranno molto sfasate tra loro se il punto osservato è molto vicino: nel caso
di immagini sotto i 15 cm la differenza angolare è talmente ampia da rendere
difficoltosa la convergenza degli assi visivi e rischiando di dare immagini sdoppiate.
Quindi il campo di tolleranza dove ha veramente effetto la visione tridimensionale
dei nostri occhi va dai 15 cm ai 30 metri.
Le informazioni, precise e corrette, raccolte dai nostri occhi vengono poi ulteriormente elaborate dal nostro cervello applicando la memoria e l'elaborazione intelligente, per cui un oggetto parzialmente nascosto da un altro viene automaticamente posto dietro quest'ultimo. E quindi se all'infinito la differenza angolare non ci è di alcun supporto, interviene la mente a completare la visione prospettica.
L'obbiettivo e la pellicola riproducono esattamente la funzione del nostro occhio:
l'obbiettivo è il cristallino e la pellicola è la retina.
Le macchine fotografiche dell'epoca erano munite di due obbiettivi distanti circa 6
cm l'uno dall'altro (come i nostri occhi) e perfettamente paralleli.
Ognuno dei due obbiettivi impressionava una immagine leggermente diversa su
un'unica lastra di vetro di 6x13 cm, questa veniva stampata su un'altra lastra (il
controtipo) che risultava positiva e trasparente.
Il Positivo, con le due immagini affiancate, veniva inserito in un visore, ed attraverso
due oculari si poteva osservare controluce.
Ovviamente l'oculare destro vedeva solo l'immagine destra, mentre l'oculare sinistro
solo l'immagine sinistra....
“et voilà”
il cervello elaborava e noi vedevamo in prospettiva.
L'unica pecca era che gli obbiettivi essendo fissi e non convergenti, non sempre restituivano due immagini che rispettassero pienamente le leggi prospettiche, ma quando successivamente si guardava nel visore il nostro cervello aggiustava le piccole imperfezioni.
I principi fotografici restano i medesimi del 1920, dobbiamo solo sostituire la lastra
di vetro con i sensori delle moderne digitali.
E non essendoci macchine digitali con due obbiettivi dovremo usare due macchine
fotografiche adiacenti per i soggetti in movimento.
Oppure una sola montata su cavalletto e con una staffa che ci permetta di fare due
scatti a differenti distanze.
Siccome quando fotografiamo vogliamo rendere al meglio tutto il campo visivo fino
all'infinito, dovremo, nel momento della ripresa, variare dai canonici 6,5 cm
diminuendo o ampliando, la distanza tra i due obbiettivi.
Se fotograferemo dei primissimi piani con un orizzonte la distanza scenderà sotto i
6,5 cm. (il primo piano fa da riferimento), mentre aumenterà man mano che
diminuiranno i soggetti tra noi e l'orizzonte.
Il visore del 1920 era molto “vintage”, ma poco fruibile da più persone
contemporaneamente, anzi era spesso oggetto di furibonde risse per potersi
avvicinare all'oculare. Per ovviare a questo e per poter gustare le immagini in più
persone, discuterne e commentarle ci viene in aiuto la tecnica degli Anaglifi, che
permette di gustare la visione stereoscopica sia su un monitor di PC, in una
proiezione e su stampe anche di grandi dimensioni.
Il processo degli Anaglifi parte da una accurata elaborazione al computer che
restituisce una fotografia dove coesistono ambedue le immagini, più o meno
sovrapposte a seconda di dove si trovano i vari oggetti (o persone) rispetto
all'infinito fotografato.
Una immagine sarà filtrata con il rosso e l'altra con il ciano, dove si
sovrapporranno
avremo tutti i colori (vedi Wikipedia: colori primari), dove una sarà differente per angolazione
dall'altra avremo ora il rosso ora il ciano.
Senza entrare nel dettaglio, questa immagine sovrapposta dovrà essere osservata
con gli occhialini rosso-ciano che obbligheranno l'occhio destro a vedere solo
l'immagine filtrata con il ciano e l'occhio sinistro quella filtrata con il rosso......
“et voilà”
il cervello elabora e noi vedremo l'immagine in prospettiva.